domenica 14 ottobre 2007

da Gabriella F.

Grazie Pensate un attimo per la costanza e i suggerimenti: ho trovato anch’io il libro di Nisargadatta prezioso.

Vorrei condividere una comprensione di questi giorni. Ovviamente, è una riflessione appena cominciata che mi piacerebbe poter approfondire con voi.
Nell’insegnamento che ho ricevuto nei lunghi anni nella FoF, ma soprattutto negli ultimi anni, mi pare che venga costantemente promosso, soprattutto da Robert, un processo di "scissione" interiore tra buono e cattivo, a volte addirittura "frantumazione" o, peggio ancora, criminalizzazione di parti di noi e del mondo intorno a noi.
Oggi, dopo mesi di lento distacco dalla Fellowship, sento che ciò verso cui vorrei tendere è unità e armonia, accettazione (anche di ciò che osservo di me, bello o brutto), consapevolezza del tutto, ricongiuzione con il proprio sè, e tutto ciò mi sembra in forte contrasto con l’insegnamento di Robert.
Per chiarire cosa intendo per "processo di scissione" nella Fellowship, ecco alcuni esempi:
sé inferiore e maggiordomo - atteggiamenti positivi e atteggiamenti negativi - re di cuori (anzi, 9 di cuori, vedi “frammentazione”) e re di fiori - studente e non studente - scuola e vita.
Ma ci sono tanti altri esempi che mostrano come l’insegnamento ormai ruoti intorno a questa “destrutturazione” di se stessi con conseguenti battaglie interiori, per non dire repressioni. Secondo me, questo può provocare un danno psicologico non irrilevante che è certamente funzionale al condizionamento che un culto si propone di attuare nei confronti dei suoi membri. Un mio amico ha chiamato la parte psicologica che gestisce queste battaglie dentro di noi il “censore interno” ...
Un processo destrutturante di questo tipo conduce inevitabilmente a giudicare le osservazioni che facciamo: sto considerando internamente? il censore interno mi ordina di smettere; provo un’emozione negativa? il censore interno mi ordina di reprimerla. E così via. Alla base, c’è il “giudizio” di una parte di noi. Dove porta questo? Come può portare all’armonia?
Oggi sento che ciò che vediamo, la gente intorno a noi, le nostre debolezze, tutto costituisce il reale. Ed è lì che il vero lavoro può avere luogo.
Non credo sia la cosa giusta costruire – come si fa nella Fellowship e come ha sempre proposto Robert – un ambiente fittizio e ideale in cui sia più facile ricordare se stessi, escludendo tutto il resto e tutti gli altri. Un mondo in cui si è capaci di stare e “condividere” solo con i membri della Fellowship.

Qualche giorno fa sono andata a vedere l’Annunziata di Antonello da Messina, temporaneamente esposta a Milano.
La conoscerete senz’altro: è unica; non solo per la sua straordinaria bellezza, ma perché è sola, senza l’Angelo; sembra guardare dentro se stessa e non assume quel tono dimesso e spaventato, incrociando le mani sul petto e guardando in basso, che si vede in altre raffigurazioni di annunziate. Lei non “respinge”, resta quietamente pensosa e porge le mani in avanti, con dolce fermezza. È senza ornamenti, vestita di un manto azzurro su uno sfondo completamente nero. Dai tratti del suo viso, potrebbe raffigurare una qualsiasi giovane palermitana, anche di oggi. Mi ha sempre fatto sentire forza, come invitasse alla riflessione e insieme al coraggio.
Insomma, ero sola di fronte al quadro. Bello, bellissimo. Desideravo essere presente e ho provato a essere semplicemente lì. (Molte altre volte in passato – quando ero a Palermo e dirigevo il centro – ero stata a lungo di fronte a quel quadro, una volta anche in compagnia di Girard. Ricordo le cose che pensavamo, ricordo come ci si sentiva speciali, solo noi capaci di essere presenti... )
A un certo punto è arrivata una signora. Si è sistemata di fianco a me, ha guardato a lungo e poi ha cominciato a parlarmi: “Non le sembra che l’abbiano illuminato troppo poco? A Palermo, l’ho visto con più luce...” Ho sentito riafforare quegli “Io” di giudizio verso di lei, quelli che pensano che la gente della vita non valga nulla. Ma poi mi è apparso chiaro come – seppure fosse assai bello essere sola con il quadro – anche questa persona facesse parte del presente, come me, come il quadro, come la stanza, come quello che provavo dentro. Lei non era meno importante.
Le ho detto che anch’io avevo visto il quadro a Palermo la prima volta e che mi sembrava che comunque brillasse di luce propria. Lei ha annuito e poi non abbiamo più parlato.
Ho raccontato questo episodio perché mi permette di mettere in parole quello che provo in questi mesi, dopo aver lasciato la Fellowship: la presenza come unione, come accettazione del presente, come ricongiunzione con il proprio sè; non come battaglia. E non come separazione, frantumazione, criminalizzazione di qualcosa in noi o fuori di noi (il sè inferiore, il re di fiori, la regina di cuori, gli ex-studenti, la gente della vita, e così via).
L’insegnamento nella Fellowship è permeato da questi processi di scissione che non possono che essere dannosi.
Un abbraccio, Gabriella

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